Intervista ad Antonio Politano

Dieci domande ad Antonio Politano, fotogiornalista di National Geographic Italia e la Repubblica, durante il Corigliano Calabro Fotografia 2013 (XI Edizione).
Altro momento fondamentale nel mio percorso di fotoamatore, questo incontro piacevole ed illuminante sulla dimensione del viaggio. Grazie di cuore ad Antonio per la disponibilità e la simpatia dimostrate, per le sue parole e le meravigliose narrazioni che sanno trasmettere le sue fotografie.


(foto Massimiliano Palumbo)


Corigliano Calabro, 29/06/2013

1) “Quello sconfinato giardino di metafore che è il viaggio”. Con queste parole, per “Kodachrome” di Radio Barrio, iniziamo una piacevole chiacchierata con Antonio Politano. Giornalista, fotografo, per National Geographic Italia e la Repubblica, oggi qui al Corigliano Calabro Fotografia 2013, XI Edizione. Per cominciare, lo ringraziamo per la sua disponibilità citando alcune sue parole:  “Esistono modi di viaggiare innumerevoli, quanti i piedi che li portano in giro e gli occhi che osservano il mondo”. Ci descriveresti in breve (vista la tua esperienza avresti da parlarcene per ore) il tuo modo di viaggiare?
Domanda difficile. In realtà io ho un modo di viaggiare che ormai è votato al relativismo. Cioè, io cerco di dimenticare me stesso e di osservare il più possibile gli altri, che siano luoghi, genti o culture (o tutto l’insieme che significano queste cose). Cerco il più possibile di mettermi in sintonia e all’ascolto dei luoghi e delle persone. Faccio poche domande quando vado in giro, proprio per sollecitare risposte loro, cercando di registrarle. Come sempre, da giornalisti e soprattutto da fotografi, si fermano delle cose; la fotografia è istante, organizzazione di istanti successivi. Quello che, se vuoi, è il nostro dovere di testimoni e di reporter è di fermare degli istanti significativi, di riconoscerli (per citare Cartier-Bresson), delle composizioni di luci e forme, di informazioni e simboli. Il mio modo di viaggiare è quello più delicato, ma anche il più intenso e dentro le situazioni possibile, questo sì, siamo chiamati a farlo.

2) La frase che citavo era tratta dall’introduzione alla decima edizione dell’”Agenda del Viaggio”, un progetto editoriale da te ideato e curato per la EDT/Lonely Planet. Vuoi parlarci di questa agenda e dirci se e quando potremo rivederla in libreria?
No, non si rivedrà in libreria. E’ un’esperienza conclusa, che è stata molto interessante perché mi ha permesso per dieci anni di approfondire la conoscenza e l’esplorazione di tutto ciò che è stata la riflessione, l’espressione, la creazione attorno alla categoria del viaggio, dell’andare e del movimento. Poichè dovevo trovare delle frasi per riempire, per nutrire ogni giorno dell’anno, con la scusa dell’agenda, ho messo assieme ogni anno un campionario: da Platone a Woody Allen, da Cristoforo Colombo a Bruce Springsteen, attraversando i vari generi di riflessioni, creazioni… cose sul viaggio. Però basta, adesso è il tempo casomai di scrivere qualcosa.

3) Tornando al viaggio, tu scrivi nel tuo “Fotografare in viaggio”, pubblicato sul sito Nikon Italia, che il mondo va scoperto di persona, “appena fuori casa o lontano, dietro l’angolo o altrove. Quanto più possibile leggeri, lenti, indipendenti”. Ci spiegheresti meglio questi tre ultimi attributi?
Ovviamente è una condizione ideale che si ricerca. In realtà, viaggiare leggeri è difficile, ad esempio per chi fotografa è quasi impossibile. Leggeri, sì, non avere troppi bagagli, ma vuol dire anche una condizione della mente, cioè di liberarsi… Addirittura qualcuno ha scritto di “lasciare a casa se stessi”. Leggeri anche fisicamente: avere nel proprio bagaglio poco, per andare con passo più leggero e libero in giro. Poi lenti, sì, perché la velocità è una delle cose che purtroppo uccidono la possibilità di accostare veramente i luoghi e le persone. Indipendenti è una bella sfida. Vuol dire liberi da qualcuno che magari ci dice cosa fare, cosa cercare, cosa scrivere o cosa fotografare. Indipendenti anche dal tour operator che ti organizza il viaggio. Magari fare più da sé e cercare da sé il proprio cammino. 

4) Essendo noi una radio, un piccolo riferimento musicale legato al viaggio: di recente, una grande collaborazione fra autori, Francesco De Gregori e Lucio Dalla, ha portato, fra le altre, una nuova canzone nel corredo della musica italiana che si chiama Granturismo. Nel testo gli autori prendono un po’ in giro quei viaggiatori-passeggeri che spesso passano più tempo a fotografare i luoghi visitati piuttosto che a prestare la giusta attenzione a ciò che stanno fotografando. Secondo te, in che rapporto dovrebbe stare l’atto del fotografare durante un viaggio perché l’uno non prenda il sopravvento sull’altro?
Anche qui, l’ideale è percepire, godere prima del luogo, e poi fotografare. Però spesso si arriva e il mirino della macchina fotografica diventa dominante; ancor prima di guardare il luogo si guarda attraverso il mirino. Beh, è sicuramente sbagliato! Perciò, prima ci si deve dare il tempo (dare, dare il tempo!) e a la possibilità di osservare, poi anche subito dopo di fotografare. Insomma, diamoci, datevi il tempo di guardare!

5) Dalle tue “possibili regole” della fotografia di viaggio, pubblicate in “Photo Travelling” (il tuo blog all’interno del sito National Geographic Italia), parli dell’importanza del documentarsi prima di partire per un viaggio, aggiungendo poi di non “sovraccaricarsi, non occupare la mente con troppe informazioni e immagini”. Ci spiegheresti meglio l’importanza di questo ultimo suggerimento?
Andare in un luogo, se si fa in maniera professionale o molto approfondita, dare un’occhiata a quella che è la rappresentazione  fino a quel momento di quel luogo o quella situazione è interessante. Però, poi, bisognerebbe cercare di dimenticare. Così come leggere informazioni o cose varie su quel luogo e poi dimenticare, dimenticare, dimenticare… Fare spazio per la propria esperienza, per il proprio modo di viaggiare; perché alle volte siamo troppo carichi di cose. Il rischio è quello di andare a ri-conoscere le cose e non a conoscerle direttamente. Al limite è meglio non leggere niente, non sapere niente e non vedere niente, essere lì con una specie di verginità dello sguardo.

6) Tu dirigi “Sguardi”,  la rivista di fotografia e viaggio di Nikon Italia, sicuramente arcinota a tantissimi fotografi e fotoamatori. Forse un po’ meno conosciuto è il “Festival della letteratura di viaggio”, di cui tu curi il programma dal 2008. Ce ne vuoi parlare?
E’ una rassegna dedicata alle diverse forme della narrazione del viaggio. Anche se è intitolato alla letteratura, in realtà non ci occupiamo solo di letteratura ma anche di giornalismo, fotografia, musica, cinema, fumetto. Cerchiamo di dare voce, spazio ed espressività alle diverse forme del narrare il grande mondo del viaggio.


7) Per il Corigliano Calabro 2013 tu esponi “Passaggio in Eritrea”, mostra fotografica tratta dal tuo ultimo viaggio pubblicato su National Geographic Italia. Eritrea, ex colonia italiana, terra bellissima ma anche difficilissima, come ci dicevi stamattina durante la presentazione del tuo lavoro, anche dal punto di vista della libertà di stampa che è quasi completamente assente. Quanto è stato difficile muoversi in Eritrea con macchina fotografica e taccuino, da giornaliste e fotografo quale sei?
In realtà non è stato difficile, anzi devo ringraziare chi mi ha aiutato in questo, per l’accoglienza a questi “estranei” muniti di strumenti così invasivi che sono le macchine fotografiche. Ci hanno accolto benissimo. In realtà la situazione è un po’ complessa lì, per cui bisognerebbe spiegare molte cose. Anche le statistiche che danno l’Eritrea come ultimo paese nelle classifiche sulla libertà di stampa sono un po’ riduttive. Però ci sono problemi reali, sicuramente. Io ho cercato di parlarne anche nel mio reportage. L’Eritrea è un paese che dopo trent’anni di guerra per conquistare la propria libertà e vent’anni di indipendenza, difficile (perché sono ricascati in una guerra), è ancora vittima di grandi pressioni. L’augurio è che quel Paese possa ritrovare una via allo sviluppo e alla libertà, non intesa in senso banalmente occidentale ma una libertà che corrisponda ai desideri, alle esigenze di un popolo intero.

8) Le tue fotografie dall’Eritrea parlano molto dell’influenza culturale italiana nel Paese, che ne descrivi qualcuna in particolare?
Il segno più evidente è quello architettonico, oltre a quello urbanistico, paradossalmente dovuto a questi lunghi periodi di crisi e di guerre nell’area, per cui il Paese non si è modernizzato più di tanto. Per fortuna l’omologazione, anche architettonica, che azzera le specificità, non è arrivata così forte, anzi direi quasi per niente. Ad esempio Asmara, la capitale quasi intoccata dalla guerra, è rimasta un gioiello nella sua struttura centrale di Art Deco, con edifici razionalisti, modernisti… Perciò c’è molta impronta italiana, anche di italiani che andando lì hanno potuto sperimentare. Io nelle mie foto ho cercato di andare al di là della facciata, che era un po’ il clichè che apparteneva alla rappresentazione dell’Eritrea, come nella foto per me un po’ simbolo della mia mostra: questa tromba di scale (unica foto verticale della mostra, tra l’altro) attraversata da una signora in abito tradizionale con un bagliore che proviene da una finestra; è semplice, vera e una buona sintesi di quello che spesso cerchiamo come fotografi: un insieme di elemento architettonico (o naturale) e di fattore umano. Poi la memoria italiana sta nella scuola, nei piatti, nel parlato, in alcuni manifesti con scritte italiane, o nelle Seicento che vengono usate nelle scuole guida che si svolgono all’alba in uno spiazzale rosso, splendido: una ventina di Seicento multiple in cui si danno il cambio allievi e istruttori. Insomma, un’Africa strana su un altopiano di 2400 m che a volte ha l’aria di essere una cittadina italiana trasferita là.

9) Sempre dalla presentazione di stamattina al Castello Ducale, hai parlato dell’importanza del racconto fotografico partendo dalla vita quotidiana. Quanta maggiore informazione può portare lo sguardo del fotografo  di viaggio se concentrato, appunto, sulla quotidianità piuttosto che sulle caratteristiche più note del luogo visitato?
E’ proprio questa la chiave, quella di raccontare cose che in genere non si raccontano. Chi è interessato alla vita quotidiana della gente comune? Quasi nessuno. Ma alcuni reporter sì. C’è un grande reporter polacco, ad esempio, che ha insegnato a noi tutti: Ryszard Kapuściński. All’interno del Festival abbiamo creato un premio intitolato al reportage a lui dedicato, in collaborazione con la famiglia Kapuściński. Bisogna stare accanto alla gente comune e raccontarla. Perché raccontare soltanto la cartolina del paesaggio, o dell’architettura o i fenicotteri? Nella mia selezione di questa mattina ho mostrato anche i fenicotteri, quasi per dire “Uffa i fenicotteri, basta coi fenicotteri!”. L’importante è la vita quotidiana, la gente. Certo, anche i fenicotteri, però ogni fotografia deve avere un fattore decisivo, il più possibilmente. Il fattore spesso è dato dalla presenza umana, che dà calore e verità (relativa a quella situazione). Ecco, io cerco il fattore umano.

10) Vorrei concludere questa piacevolissima chiacchierata chiedendoti quanto, nella tua esperienza, sia importante, come si diceva appunto stamattina, “farsi dimenticare dai soggetti” per ottenere al meglio gli scatti desiderati e un punto di osservazione da narratore assolutamente efficace e coinvolgente come ritengo tu sia.
Innanzi tutto grazie per gli eccessivi complimenti (poi ti offrirò una birra stasera…).
E’ fondamentale farsi dimenticare dai soggetti, diventare invisibili. In realtà è un obiettivo, anche se quasi mai ci si riesce. Cercare di stare lì, scattare un po’, fare qualche piccola domanda…e continuare a restare lì, magari creando anche un po’ di sconcerto in quelli che dicono “ma questo che fa qua?”. Poi, però, quasi sempre riprendono a fare le loro attività, non ti guardano più, cominciano di nuovo a parlare fra di loro…e allora si ricrea quella verità iniziale che avevi individuato e che ti interessava testimoniare. L’invisibilità ha spesso il pregio di produrre poi una visibilità utile a chi guarda e a chi ascolta.




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