30/06/08

Intervista a Ferdinando Scianna (parte prima)

Corigliano Calabro Fotografia 2012. Decima edizione della più prestigiosa rassegna fotografica del sud Italia. Per festeggiare l'importante traguardo raggiunto, quest'anno c'erano tutti, ma proprio tutti, i grandi fotografi intervenuti negli anni passati. Fra questi, anche Ferdinando Scianna, che per questa edizione ha realizzato la serie "Tre giorni a Corigliano", esposta nel Castello Ducale insieme ad altre importanti mostre di grandi personaggi della fotografia italiana.
Un evento, dunque, a cui non poter mancare. Io, da grande estimatore di Scianna, dei suoi lavori e del suo pensiero fotografico, ho preparato alcune domande da sottoporgli. E' stato disponibilissimo nel rilasciarmi questa intervista, e molto paziente nel rispondere alle mie 12 domande in una sfavillante, quanto caldissima, sala del Castello. Ne è venuta fuori una interessante chiacchierata di...50 minuti! Grande parlatore, affascinante ed erudito, Ferdinando Scianna. Non posso che ringraziarlo, anche in questa sede, per la gentilezza dimostrata e la grande emozione regalatami nel parlare con me di fotografia.
Di seguito la prima parte dell'intervista (a seguire nel testo i links per le parti 2 e 3).



Corigliano Calabro, 30/06/2012

1) Vorrei iniziare dalla definizione di fotografia, visto che questa serie di domande vorrebbe anche essere uno spunto di riflessione, di dibattito, fra i soci del Gruppo Fotoamatori Crotone. “Scrittura di luce” o “scrittura con la luce”. Credo di aver percepito che Lei propenda più per la prima delle due interpretazioni; è così? Vuole spiegarci il perché?

Io l’ho posta in questi termini riferendomi alla sequenza dei nomi che sono stati dati alla fotografia, definita prima heliogravure (cioè scrittura del sole), poi calotipia (mettendoci dentro l’idea della bellezza), ecc. Poiché il termine fotografia l’aveva suggerito Sir John Herschel (uomo di scienza che aveva per altro proposto a Fox Talbot l’uso dell’iposolfito di sodio), mi sembrava che, venendo da uno scienziato, questa parola composta da due termini (scrittura e luce) potesse avere un’ipotesi più tecnica. Quindi è la luce che scrive. Come del resto aveva detto anche Niépce.
Poichè, in definitiva, per la prima volta la fotografia produce delle immagini che non sono scritte dall’uomo ma sono scritte dalla luce, attraverso un’intermediazione di carattere ottico-meccanico.
Beninteso, io propendo per l’idea di scrittura di luce perché scrittura con la luce, in un certo senso, implica calotipia, implica il fatto che la soggettività possa introdurre la bellezza. Con la fotografia le due cose hanno una loro inestricabilità, una loro legittimità; perché se è vero che la fotografia, in quanto scrittura di luce attraverso un appartato ottico-meccanico, è comunque un mezzo per registrare il mondo, e quindi il fotografo può considerarsi un interprete del mondo (ma l’autore di ciò che il fotografo interpreta è il mondo stesso, è attraverso la luce che lui lo interpreta), è anche vero che questa interpretazione implica una quantità di elementi di soggettività. Negli stessi strumenti che si usano c’è soggettività: una macchina fotografica può essere usata con un teleobiettivo, con un grandangolare, da un certo punto, da un altro, in un certo istante piuttosto che in un altro, più da vicino piuttosto che da lontano, ecc.
Gli elementi di soggettività sono moltissimi, quindi per me la fotografia è un’interpretazione del mondo, ma è un’interpretazione come per un pianista che suona Bach e che lo può interpretare in mille maniere diverse: Bach rimane Bach, la musica è quella della realtà storico-culturale che ci si rivela attraverso la luce, però la maniera di vederla e di interpretarla è altrettanto molteplice. Per questo io parlo sempre in maniera ossimorica; tutti i miei libri hanno spesso dei titoli contraddittori: Obiettivo ambiguo, La geometria e la passione, e cose di questo genere. La fotografia se li porta dietro tutti e due: il suo essere strumento di registrazione del mondo e il suo essere interpretazione del mondo.
Ciò sul quale ho delle perplessità, perplessità che nascono più che altro da una sorta di difesa della specificità della fotografia, è l’idea che trasforma l’autore in creatore, perché sposta paradossalmente la fotografia verso la pittura.
Nella pittura, invece, l’elemento di registrazione del mondo, se c’è, è soggettivo. Se uno vuole disegnare il castello di Corigliano Calabro lo disegna anche con l’intento di restituirne tutti i suoi valori, però non è questo che è intrinseco al mezzo; tant’è vero che, a proposito di un dipinto o di un disegno, la prima cosa che ci domandiamo è “chi l’ha fatto?”.
A proposito di una fotografia, secondo me, la prima cosa che dovremmo domandarci è “che cosa racconta?”, e poi come lo ha raccontato chi lo ha visto.
Per questo sono convinto sia meglio pensare che lo scioglimento della parola fotografia sia quello di scrittura di luce piuttosto che scrittura con la luce.


- Parliamo perciò anche del concetto dell’immagine ricevuta piuttosto che dell’immagine fatta.

Sì. Il problema è che questa diatriba, questa polemica, questa discussione, ha una sua connotazione di carattere storico, ed è cambiata nel tempo. Se noi analizziamo delle fotografie microscopiche, astronomiche, oppure la riproduzione di un tessuto, il problema se si tratti di documento o di interpretazione non si pone. Se invece la poniamo sotto l’aspetto estetico allora si propende verso…”ah, lei è un artista!”. E questo ha una connotazione di carattere anche sociale ed economico. Oggi c’è questa prevalenza del concetto di fotografo-artista, così come ai tempi della nascita della fotografia qualche imbecille disse: “dal momento in cui c’è la fotografia la pittura è morta” (lo diceva, evidentemente, da cattivo pittore la cui pittura era morta). Invece la pittura, la buona grande pittura, dall’ingresso, dall’irruzione direi, della fotografia nella cultura occidentale è stata liberata. Per quale motivo un pittore, come diceva Piccasso a Brassai, dovrebbe mettersi a dipingere la facciata della Cattedrale di Ruen con un intento documentario, quando con la macchina fotografica lì davanti può riprendere anche le crepe nella pietra?. Infatti, da quel momento in poi, Monet, che la dipinge come una serie, non la dipinge più con l’intento di dire “guardate com’è la facciata della Cattedrale di Ruen”, la dipinge allo stesso modo in cui Morandi dipinge bottiglie (che non vuole certo raccontarci come sono fatte le bottiglie, ma che idea ha lui del dipingere).
E’ stato creato nel tempo un pregiudizio di carattere romantico sull’idea dell’autore come creatore; una sorta di gradino intermedio tra la massa e Dio. La parola creatore, dico sempre io (e probabilmente è già un abuso la sua presenza nel vocabolario), dovrebbe esistere soltanto nei trattati di teologia, perché creare vuol dire produrre qualche cosa dal nulla, e questo è un attributo esclusivo della divinità. Nessuno può fare qualcosa dal nulla. Diciamo allora inventore, autore, sono tante le possibilità.
Con la divinizzazione dell’autore, che è appunto un’idea romantica, chi scrive è meglio di chi legge. Ma se c’è un genio che scrive e un imbecille che legge, ciò che l’autore ha scritto diventa una cosa imbecille, cioè un libro straordinario letto da un imbecille diventa un libro imbecille. Qualche volta può succedere addirittura che un libro imbecille letto da un genio diventi geniale. Quindi l’interpretazione spesso rivela l’oggetto; e in ogni caso ne ha bisogno. Chi legge un libro lo riscrive, in un certo senso. C’è una poesia straordinaria di Borges, che io cito sempre ad autodifesa, che dice: “Lettore, tu che sei probabilmente migliore di me, cerca di trovare in questa mia poesia tutta la bellezza, tutta l’intelligenza, tutta l’armonia che io non sono stato capace di metterci”. Anche questo può succedere. Quindi, io non considero affatto il gesto del fotografare - per ragioni di carattere storico e tecnico, ma anche per la rivendicazione orgogliosa della propria importanza di interprete - una diminutio, una maniera di considerarsi meno autore di quanto possa essere autore chi non si capisce da dove cava la cosa che fa; perché l’interpretazione è la cosa. La lettura del mondo è una differente maniere di vederlo, ti pone nel ruolo di interprete e autore. Non ne vedo la contraddizione e non vedo soprattutto il complesso che dovrebbe avere il fotografo-lettore nei confronti di un presunto arista-autore che non si capisce di che cosa diavolo sia autore.


2) Nel suo destino di siciliano, di fotografo siciliano, c’è la luce; ancor di più c’è l’ombra. Le sue immagini sono costruite, per l’appunto, a partire dalla struttura dell’ombra.
Quanto dei forti contrasti luce-ombra della sua terra ha ritrovato qui in Calabria, e in particolar modo nei suoi Tre giorni a Corigliano?

Direi che qui siamo in un ambito storico, geografico, culturale e psicologico troppo vicino perché uno possa trovare differenze. Se lei mi avesse chiesto “che differenza ha trovato nel fotografare a Stoccolma?”, io glielo potrei esplicitare, ma stiamo sudando a Corigliano come suderemmo in questo momento a Siracusa, quindi siamo nella stessa logica, ci muoviamo dentro le stesse empasse storiche e dentro le stesse glorie di carattere geografico-culturale.


3) Come già detto, Lei rivendica una piena indipendenza della fotografia nei confronti di arti figurative quali la pittura.

Indipendenza, sì, sono d’accordo, la parola è ben scelta. Appunto di indipendenza si tratta, non di alterità. La mia rivendicazione dell’indipendenza della fotografia nei confronti della pittura è una rivendicazione orgogliosa. Non è una maniera per dire “noi siamo meno della pittura”. Noi siamo diversi dalla pittura, e questa credo che sia una delle glorie della fotografia, non un handicap.


- Ritiene comunque utile, esteticamente formativa, la fruizione delle arti figurative da parte di chi pratica la fotografia? Pensa che la frequentazione di musei, pinacoteche, dell’arte più in generale, possa aiutare il fotoamatore ad affinare la propria personale visione fotografica?

Ci mancherebbe altro! Voglio dire, quanta più polvere hai nella tua cartuccia tanto meglio spari, e tanto più possibilità hai di attingere alla tua selvaggina. E’ chiaro che in qualsiasi pratica di carattere espressivo-narrativo (la definisco tale perché è la connotazione che gli do io) tutto concorre. Se si nasce in una famiglia ricca in Normandia, o in una famiglia miserabile in Africa, oppure in una ricca o miserabile in Sicilia o in Calabria, la propria visione del mondo non è la stessa, perché parte da esperienze di tipo diverso. Se sei nato in un contesto dove c’è un certo tipo di luce, ma c’è anche un certo contesto storico-sociale, è chiaro che la tua visione sarà molto diversa da quella del mondo di un tedesco che viene dalla Ruhr e che ha una storia alle spalle diversa. Quindi, quanto più diversi sono i punti di partenza ed i punti di approccio verso il mondo, tanto diverse sono le visioni che tu ne hai. E tanto più ricca è la tua strumentazione linguistica. Si possono scrivere dei grandi libri con 1200 parole, come fa Simenon (che lo fa addirittura come scelta quasi concettuale), ma si possono scrivere dei capolavori utilizzandone anche 5000, come può fare Gadda o Joyce. Dipende da ciò che si vuol fare. Non bisogna conoscere 5000 parole ed usarle tutte per essere migliore di chi ne utilizza 1000, ma suppongo che chi ne utilizza 1000 le utilizzi meglio se parte dalla conoscenza di 5000.
E questo vale anche per la ricchezza di carattere espressivo-figurativo. Se tu hai letto molti libri, hai visto molti quadri, hai fatto attenzione alle strutture formali del mondo, è chiaro che questo diventa una specie di cadenza della tua maniera di guardare il mondo.
Se si guardano le fotografie di Piergiorgio Branzi - un amico - non sapendo che sono le sue, si può di certo indovinare che si tratta di un signore nato in Toscana, di chi, appena tirato fuori il naso, ha visto l’ordine rinascimentale caratteristico del grande momento storico. Luchino Visconti diceva che la festa nobiliare nella Dolce Vita di Fellini sembrava una festa a casa sua vista dall’autista. Certo, vista dall’autista, ma genialmente vista! Luchino Visconti, invece, abituato dalla nascita alla visione di cose come, probabilmente, il quadro di Botticelli che sua madre aveva di fronte casa, quando gira il Gattopardo ha un certo modo di vedere quelle cose, ed è evidentemente diverso da quello di Fellini, a cui probabilmente non interessa.
Chi nasce in Calabria o in Sicilia è circondato da colonne greche, cattedrali barocche, strutture di tipo geometrico e del paesaggio che in ogni zolla raccontano la storia. Di questo sicuramente  non potrà prescindere quando guarda facendo il fotografo. Neanche se cucina ne può prescindere, perché alle spalle ha quell’idea del mondo, quei sapori...
Quindi è chiaro: quanto più mercanzia metti nel tuo magazzino, tanto più vasto è lo strumentario al quale puoi attingere istintivamente, come spesso si fa facendo il fotografo per restituire ciò che vuoi dire del mondo. Hai, cioè, più sottigliezze e più parole, più ricchezza di vocabolario per esprimerti.


4) Direi che ha già risposto, a questo punto, alla successiva domanda, in cui le avrei chiesto: quanto, secondo lei, può influire la letteratura, o anche il semplice amore per la lettura, sulle immagini ricevute dal fotografo?

Non è diverso. Quando mi si dice “come fai a negare che fotografia e pittura sono comunque immagini?”, io non lo nego neanche da lontano!
E’ chiaro che le fotografie, in quanto immagini, non solo non possono ma nemmeno devono prescindere da tutta la grande storia delle immagini di prima della fotografia, che è la storia delle immagini fatte. Ma non possono prescindere neanche dalla storia della musica; il che non vuol dire necessariamente conoscere Schonberg, ma fare anche l’esperienza della musica popolare, o della musica colta. Le romanze di Verdi, ad esempio, sono più simboliche dell’Italia di quanto non lo sia il Tricolore (che in definitiva è un’invenzione astratta), mentre quelle musiche sono entrate nell’anima delle persone; mia nonna le cantava!… Entrano a far parte, cioè, delle fibre culturali di una nazione, di un paese o di un’esperienza esistenziale. E poi finisci per avere quella cadenza, sia che tu faccia fotografia, sia che tu faccia scarpe. Non è differente.




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1 commento:

Donatella Simoni ha detto...

Che dire... complimenti a te per questo lavoro. In quanto alle parole di Ferdinando Scianna bisognerebbe leggerle e rileggerle più volte per assaporarne il gusto. E' quello che farò. Grazie di questa opportunità.