30/06/08

Intervista a Ferdinando Scianna (parte terza)

Corigliano Calabro, 30/06/2008

9) Nel 1998 pubblica Bestie, libro in cui manifesta fotograficamente il suo interesse, il suo amore, verso il mondo animale. Quanto, secondo Lei, ha influito in questo l’aver trascorso infanzia e giovinezza nel mondo contadino di Bagheria, dove persone e animali, in quegli anni, convivevano inevitabilmente? (penso ad esempio alla casa di Zu Sariddu o, aneddoto delizioso e drammatico a un tempo, al suo “principio sì giolivo” per cui Lei stesso si definisce “fratello di latte di un cane”).

In realtà, il libro sugli animali non l’ho ancora pubblicato, lo sto preparando.
E purtroppo non ho mai conosciuto quel fratello di latte…
Certo che ha influito l’aver vissuto a Bagheria. In fondo questa conversazione gira intorno al fatto che un fotografo non nasce da un cavolo, o se nasce da un cavolo è figlio di quel cavolo. Le mie fotografie di animali non sono diverse dalle mie fotografie di donne. Quando ho cominciato con le foto di moda, qualcuno ha parlato della “sensualità” del mio sguardo sulle donne. Ma che vuol dire? Non penso che un fotografo, se è un fotografo, porti uno sguardo sensuale solo se fotografa le donne. Se ha uno sguardo sensuale ce l’ha anche se fotografa la Sicilia nera, i paesaggi o gli animali. La sensualità nello sguardo non ha necessariamente a che fare con l’oggetto. E’ chiaro che io ho uno sguardo sensuale sulle donne, perché sono vissuto in un mondo nel quale le donne erano irraggiungibili, erano frutto di una tensione erotica contraddetta. Così c’è chi dice che nelle mie foto di donne c’è questa aria di desiderio, qualche volta di violenza palpabile. Ma se tu vivi in quel contesto, da lì viene la tua maniera di guardare le donne, ma viene anche dal fatto che intorno a te ci sono gli animali, c’è tuo nonno che ammazza la gallina davanti a te… Tutto questo ha a che fare con una complessità di esperienze esistenziali, visive, emotive, culturali che ti determinano. Sarebbe quindi ben strano che io, essendo nato a Bagheria nel 1943 e avendo vissuto le propaggini della fine del mondo contadino, non fossi interessato agli animali. Ce n’erano una quantità intorno a me! Ero interessato agli animali, alle donne, al sole, al mare, a tante cose, ecco.


10) A proposito della temporalità peculiare della fotografia, Lei, in quanto fotografo, vive il presente sapendo di costruire memoria. In Quelli di Bagheria ne ha fornito uno straordinario esempio.
[Mi permetta a questo proposito di aprire una parentesi personale: vorrei ringraziarla, davvero di cuore, per aver riportato alla luce, attraverso Quelli di Bagheria, le memorie di mio padre, ciò che conoscevo soltanto attraverso i suoi racconti di bambino e ragazzo nato e vissuto a Palermo nel ’40. Ho provato una sincera emozione, ad esempio, nel guardare le fotografie dei ragazzi che si sfidano a ‘pizzangulate’ con la ‘strummula’; o anche le immagini, bellissime!, dei ghirigori di salsa di pomodoro sulle ‘maidde’ stese ad asciugare.]
Ritiene sia possibile dedicarsi ancora oggi alla fotografia, nonostante  i notevoli mutamenti incorsi a questa forma di linguaggio, con la consapevolezza di poter costruire memoria in modo semplice e onesto, pur vivendo in un’epoca di continui e frenetici cambiamenti culturali, politici, sociali…?

Non so se ciò riguarderà specificatamente la fotografia, oppure no. In definitiva non dobbiamo dimenticare che la fotografia ha meno di duecento anni di vita. Probabilmente, vista l’accelerazione e il turn-over vertiginoso delle lingue e delle tecnologie, la fotografia è già entrata in una zona di agitazione culturale per cui, già tecnologicamente, non è più la stessa cosa di quello che era venti anni fa, nonostante sia rimasta uguale a se stessa per quasi un secolo e mezzo. Può anche darsi che questo tipo di rapporto nella costruzione della memoria attraverso gli strumenti linguistici di cui disponiamo non riguardi la fotografia, oppure sì, o che riguardi ciò che continueremo a chiamare fotografia, pur essendo una cosa diversa da quella che ho praticato io negli ultimi cinquanta anni. Quello che è sicuro è che questa esigenza non morirà, perché esisteva prima della fotografia e continuerà ad esistere anche dopo la fotografia: gli uomini sono degli esseri che producono significato e che, per loro stessa natura - altrimenti non esisterebbero - confrontano la realtà dell’esperienza, cioè accumulano memoria. Se gli uomini non avessero memoria non sarebbero uomini. Se gli uomini non producessero immagini - dalle caverne di Lascaux sino alle fotografie - non sarebbero uomini. Fanno immagini perché sono uomini e sono uomini perché fanno immagini. Negli ultimi due secoli le hanno fatte molto facendo i fotografi. E il fotografare, per sua stessa natura tecnologica, è una sedimentazione automatica, direi quasi, di memoria. Naturalmente bisogna poi finalizzarla e organizzarla secondo strumenti culturali che, a volte, sono collaterali alla fotografia, a volte si sposano con altre cose, ecc.
Penso perciò che questa esigenza non può morire, perché è connaturata all’uomo.


11) In Etica e fotogiornalismo Lei delinea a più riprese un quadro piuttosto desolante dell’attuale cultura dell’immagine e della fotografia:
- le manipolazioni prima, durante e dopo lo scatto fotografico;
- la ricerca a tutti i costi dello scoop, molto spesso corrispondente ad immagini di morti;
- la mercificazione delle pulsioni umane, che Lei non tarda a definire pornografia;
- la mancanza di credibilità di chi produce, gestisce e pubblica le immagini;
- il triste accostamento fra fotografie di drammi umani e pagine pubblicitarie;
- la forsennata tendenza di molti fotografi a considerare le proprie foto come opere da esporre più sulle pareti delle gallerie che sulle pagine dei giornali.
In una recente intervista ha dichiarato: “poco mi importa del futuro della fotografia”.
Il perché di questa sua affermazione può essere ricondotto alle motivazioni sopra elencate o ci sono altre ragioni per spiegarla?

No, io credo che la mia tiepidezza nei confronti dei destini della fotografia abbia piuttosto una risposta nel mio destino biologico. Sono molto più inquieto, cioè, dei pochi anni che mi restano piuttosto che dei destini della fotografia. Saranno cavoli della fotografia e di continuerà a farla. Perché il mondo cambia… Non so se a un certo punto ci sarà un momento di riflessione intorno a questi vertiginosi mutamenti che stiamo vivendo negli ultimi cinquanta anni. A proposito del discorso di carattere etico, poi, non è né ottimistico né pessimistico. Sciascia diceva sempre: “il problema non è il vedere il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, il problema è sapere quanto ce n’è in quel bicchiere”. Non sei pessimista se dici quanto ce n’è. Anche sul piano della dimensione etica, non credo che noi viviamo in un mondo meno etico o più etico di prima. Tant’è che all’inizio di questo libro affermo che “l’etica è l’etica, non credo che esista una specifica etica del giornalismo con una sottoetica del fotogiornalismo”.  Da ben prima della fotografia, da ben prima che esistesse il fotogiornalismo, la gente si domandava cosa fosse giusto o meno. C’erano quelli che cambiavano le carte in tavola, che ciullavano per il manico, che facevano pornografia attraverso i sentimenti delle persone, che diffondevano notizie false e interessate. Ogni epoca fa le proprie porcherie con i linguaggi che il tempo gli offre. La cosa che oggi viviamo in maniera specifica è che queste porcherie hanno una dimensione da società di massa globalizzata. Allora abbiamo l’impressione che siano più gravi. Ma non credo che siano più gravi. Cioè, un mascalzone del tempo del carretto era conosciuto al suo paese; un grande mascalzone finanziario oggi ha un’influenza sulla società globale. Erano mascalzoni entrambi, solamente in scala diversa e si esprimevano attraverso linguaggi diversi. Non si tratta quindi di essere ottimisti o pessimisti, si tratta di sapere che il mondo così va, e che i linguaggi che noi utilizziamo non sono buoni o cattivi in sé. Dipende dalla loro qualità etica - oltre che estetica, emotiva ed intellettuale - e dalla capacità con cui li sapremo utilizzare in maniera etica, esteticamente corretta e conoscitivamente utile.


12) Vorrei terminare questa piacevole chiacchierata tornando a Quelli di Bagheria.
In prefazione e in quarta di copertina Lei scrive: “Credo che la massima ambizione per una fotografia sia di finire in un album di famiglia”.
Ritengo che queste parole possano ben rappresentare lo spirito migliore con cui dedicarsi, anche oggi, alla fotografia che racconti il mondo intorno a noi. E’ d’accordo?

Paradossalmente, mi immalinconisce che una cosa culturalmente così straordinaria, così innovativa per certi versi, come l’album di famiglia – la cui vicenda va insieme con l’evolversi della storia della fotografia - stia per morire, o comunque si evolva in una maniera tale che ne cambia completamente il significato. Perché mettere delle foto su Facebook non ha lo stesso senso che metterle in un album di famiglia, perché questo costituisce l’identità di un gruppo, i lari, come li definivano i nostri antenati. Ma quando io parlo di album di famiglia parlo di un gesto con un certo significato simbolico. In questo senso la famiglia non è solamente quella della tua cerchia parentale. Tant’è che, sviluppando quel concetto, dico che dovremmo produrre foto e dovremmo poter guardarle con lo stesso pathos, con la stessa partecipazione, con lo stesso sentimento di necessità e di recupero della nostra identità con cui guardiamo ai nostri album di famiglia. Se noi guardiamo la fotografia di una nostra bisnonna che non abbiamo mai conosciuto, di cui abbiamo sentito favoleggiare dalle nostre nonne, la guardiamo con un interesse straordinario: nella faccia di quella persona, nella maniera in cui è vestita, nel contesto che la fotografia ci restituisce ritroviamo un pezzo di noi stessi. E’ questa è la giusta maniera di guardare alla fotografia, perché ha una connotazione formale, di memoria, storica, conoscitiva e, se è una bella foto, anche estetica (anche se quando una fotografia funziona è sempre una bella foto).
Questo nostro rapporto con il mondo non riguarda solo la nostra cerchia parentale, perché ci sono fotografie che entrano a far parte del nostro album di famiglia anche se non riguardano questa cerchia. Per fare degli esempi: né lei né io (io ero appena nato, lei non era ancora nato) abbiamo avuto a che fare direttamente con il contesto che ha prodotto l’immagine del bambino con le mani alzate nel ghetto di Varsavia. Eppure quella fotografia la possiamo guardare come se facesse parte del nostro album di famiglia, perché si inserisce nel nostro cromosoma storico. Noi siamo figli di quella tragedia e del fatto che abbiamo superato quella tragedia.
La bambina che fugge sotto il bombardamento del napalm fa parte dl nostro album di famiglia. Merilyn Monroe con le vesti che fanno vedere quelle due colonne greche delle sue cosce fa parte del nostro album di famiglia. Non è soltanto la tragedia, dunque, ma anche la leggerezza, le belle cose.
In maniera paradossale, Kundera diceva “Mi emoziono sempre guardando le fotografie di Hitler perché mi ricordano la gioventù”! Mentre io mi emoziono sempre quando guardo una fotografia di Ava Gardner perché per me è il paradigma della bellezza femminile.
Però certe fotografie devono essere fatte e devono entrare nel contesto del nostro patrimonio visivo con questa intensità. Non con la connotazione da crema per la notte di carattere cosmetico, come la maggior parte delle immagini che oggi vengono prodotte. Perché siamo in un mondo in cui l’inflazione, il consumo e la produzione di massa delle immagini tendono a renderle insignificanti. Non c’è gesto che possa diventare emblematico se viene ripetuto all’infinito.
Una volta ho incontrato un signore sull’isola di Pasqua che voleva andar via da lì. Dopo essersi buttato in acqua ed essere tornato con un pesce rosso, un pesce verde ed un’aragosta grande così, gli ho chiesto perché se ne volesse andare, da un luogo dove basta buttarsi in acqua per tirar su un’aragosta. Lui diceva “Siempre langosta, siempre langosta!”. Non puoi mangiare aragosta tutti i giorni, ti diventa indifferente.
E così, quando l’immagine ti fa scoprire qualche cosa, ti fa entrare in contatto con qualcosa di importante, entra a far parte dell’album di famiglia. Se diventa una specie di sfarfallio dorato del nostro rapporto con il mondo diventa insignificante. Quello che io dico: la fotografia, nella sua connotazione storico-culturale, muore per eccesso di successo. L’eccesso di immagini diventa un muro tra noi e le cose. Finisce per diventare interessante l’immagine, mentre ciò che conta davvero è il mondo che quell’immagine racconta. Sino a quando le immagini e le fotografie avranno come esigenza e come fruizione il nostro rapporto con il mondo, continueranno ad avere una grande importanza culturale e morale. Purchè non continuino in questa deriva verso l’insignificanza (ma non parlo solo della fotografia, parlo della cucina, dell’architettura, dei rapporti sentimentali).
Oggi tutto si indossa! La grande vera ideologia è la moda: si indossano le fotografie, si indossano i sentimenti, si indossano le idee politiche. E, come nella moda, dopo qualche anno, se hai ancora quel vestito, sei fuori moda. In fondo uno si mette un vestito perché fa freddo e perché vuole avere una certa immagine di sé nei confronti del mondo, che è pure legittimo. Se tutto diventa avere un’immagine di te nei confronti del mondo, finisci col non sapere neanche chi sei. E questa è una perdita che riguarda tutto, non soltanto la fotografia. In questo senso non me ne importa niente di ciò che sarà il destino della fotografia. Quello che mi interessa è quale sarà il destino dell’uomo, perché ho dei figli e ho dei nipoti, e questa è una prospettiva di carattere storico. Per il resto gli uomini inventeranno sempre qualcosa per comunicare gli uni con gli altri.   
.

Nessun commento: